Una curiosità che ritengo parecchi di noi hanno provato nella vita è quella sulla propria personalità: e allora giù a compilare Test sui giornali che ci capitano tra le mani. Per sapere qual è il nostro modo di reagire, come siamo fatti, se siamo forti (?!) o fragili (???!). Incontriamo le parole “personalità”, “carattere”, “temperamento” e se indaghiamo sulle loro differenze troviamo definizioni non proprio distinte e che danno più o meno considerazione al patrimonio genetico. Nella nostra società, la maggioranza delle persone ritiene che il carattere sia determinato geneticamente; perché assomigliamo caratterialmente alla mamma, al papà o allo zio, ma queste somiglianze non possono essere delle “eredità psicologiche”? Dovute alla vicinanza dei genitori, al vivere con loro, all’esserne influenzati? Esistono diverse teorie della personalità che si occupano della totalità della persona e dei suoi comportamenti e che traggono origine dalla psicologia clinica. Esse sono teorie di posizione “organistica”, che ritengono che le azioni di una persona si possono comprendere solo se considerate assieme a tutte le altre azioni, che sminuiscono quindi l’importanza di fattori come l’appartenenza ad un gruppo e a una certa cultura; teorie di “predominanza del campo”, secondo cui esiste una unità indivisibile tra un comportamento di un individuo e l’ambiente in cui vive.
Dai miei studi, specialmente dagli scritti di D. Napolitani e dai suoi Seminari, dalla mia esperienza professionale e personale è sorta la convinzione che l’uomo è condizionato molto dall’ambiente in cui vive, ambiente costituito da innumerevoli e spesso incontrollabili fattori che ne influenzano la personalità (perdonatemi se non bado molto alle possibili differenze di significato tra “personalità” e “carattere”).
Già Freud aveva parlato di “identificazione” del bambino col genitore dello stesso sesso, necessaria per superare quel che lui chiamò “complesso di Edipo”.
Avendo sempre presenti nella mia mente gli insegnamenti di D. Napolitani, della di lui figlia Claudia e di tutti i gruppoanalisti incontrati, immaginate una identificazione ancora più ampia e complessa, un qualcosa che ci spinge ad “assorbire” tratti e peculiarità dalle persone che ci circondano (dalle quali abbiamo bisogno di essere accettati e amati), dalla società con la sua cultura e i suoi codici di significato, dalle generazioni precedenti attraverso le storie familiari; ma non ci sono soltanto le “parti di altri” interiorizzate, esiste una propria autenticità unica e irripetibile che portiamo al mondo con la nostra nascita, fondamento della nostra esistenza, garanzia di benessere psicologico nella misura in cui viene vista, considerata e valorizzata dalle persone che ci accolgono al mondo, che si rivolgono a noi con la curiosità di capire chi è il proprio figlio e non chi deve essere e chi deve diventare. Spesso nel mio lavoro uso la metafora della melodia musicale dicendo che ognuno di noi venendo al mondo porta dentro di sé una propria ed unica melodia, assolutamente diversa da quelle degli altri (le melodie che si possono creare con le note musicali sono infinite, come infinite ed uniche sono le autenticità degli individui) che, se fatta esprimere, non soffocata completamente da “melodie” altrui preesistenti, ascoltata ed apprezzata, diventa condizione necessaria e indispensabile di una ottima qualità della vita.
La persona, quindi, può essere il risultato della combinazione tra “parti altrui” interiorizzate e parte autentica individuale; meno le parti altrui soffocano l’autenticità, più l’individuo è sano e in grado di vivere a pieno, ma con un certo equilibrio, poiché abbiamo anche bisogno di queste interiorizzazioni. Concludendo, mi vengono in mente le parole di una donna, sicuramente di pensiero acuto che, parlandomi dell’omosessualità del figlio mi disse. “Mio figlio ha assorbito la mia femminilità, perché me lo tenevo troppo vicino, lo coinvolgevo in troppe cose femminili … e mio marito se ne stava a guardare senza dire e fare niente …!”.